Una sudata mattina di fine luglio la mia vita si legò al Convitto Principe di Piemonte di Anagni. 
Ad essere onesta, il Convitto di Anagni, al momento del mio trasferimento a Roma, l’avevo categoricamente escluso per l’odiata sede papale che mi era costata un voto basso di storia, e che avevo, solo in un secondo momento, scoperto essere proprio quella cittadina nel frusinate. 
Tuttavia la struttura sembrò sorridere benigna al mio ingresso; l’antica chiesa doveva ormai essere piuttosto pratica nell’accoglienza dopo decenni di giovani studenti in livrea sfilati ai suoi piedi. 
In realtà ero una fuggitiva, una delle rare matricole che non hanno abbracciato la vita della Capitale e che, pertanto, si era data da fare per cercare luoghi più consoni. Complice la brezza ombrosa del viale di platani, lontana secoli dal calore sfiancante di Roma, me ne innamorai. 
Ricordo il momento in cui mi venne mostrata quella che, potenzialmente, poteva divenire la mia stanza; era poco più di una celletta monastica, eppure, quell’unica finestrella e quel grandioso bagno, mi parvero un miracoloso privilegio. Con la semplicità dei 20 anni mi lanciai sul lettuccio e, con un sorriso incoraggiante, uno dei rari juventini che avrai stimato di lì in avanti, mi disse semplicemente ‘il materasso è nuovo’. Non aspettavo altro per far domanda di ammissione: quel materasso l’avrei inaugurato io. 
L’inizio non fu esattamente il massimo: sbagliai l’orario della cena e, al mio ingresso nel salone della mensa, tutti gli occhi si poggiarono sulla mia goffaggine. Qualcuno, mosso a compassione dalla mia inesperienza, mi aiutò a mettere insieme una cena che mi apparve la migliore mai esperita. 
La vita nel Castello dei Destini Incrociati (spero che il buon cuore del lettore mi possa perdonare la citazione, dovuta ad una tragica deformazione professionale) era scandita da ritmi antichi, che andavano rispettati. Non ho mai disatteso le regole perché, in un certo senso, mi sarebbe apparso un tradimento. Pian piano ogni persona, in maniera consapevole o meno, entrò a far parte della mia famiglia. La mattina le Signore delle pulizie sistemavano con cura la mia stanzetta, mentre, le Cuoche, servivano la colazione e distribuivano quella dolcezza involontaria che provoca il contatto con i ragazzi. 
A pranzo mi preoccupavo seriamente se non sentivo l’avvicinarsi della gioiosa confusione dei più piccolini, accompagnati dalle instancabili Maestre. Ovviamente la categoria più prossima alla mia era quella dei Convittori, che mi sono sempre immaginata provare gli stessi sentimenti, forse amplificati, di noi universitari. Si, perché la vita reale del Convitto è quella che scorre nelle camere e nei corridoi dopo le sei di sera, quando il rumore del mondo esterno si affievolisce e bussano alla porta malinconia e paura. 
Ricordo ragazze di 22/23 anni piangere disperate per la lontananza da casa e confidavo che gli Educatori dell’epoca (erano i tempi del convitto esclusivamente maschile) riuscissero a consolare quei bambini. Si, perché io non credo che fare l’Educatore sia un semplice lavoro; è una scelta di vita, una missione. Per quei ragazzini il comportamento sopra le righe può rappresentare una disperata richiesta di attenzione, così come capita nelle famiglie numerose. Ecco allora che l’Educatore, nel suo duplice ruolo di padre e di maestro, ha il difficile compito di punirne l’azione e comprenderne le cause. Quello che maggiormente mi ha sempre colpita di tutti i convittori, ma anche degli universitari ospiti di questa struttura, è la disperata ricerca di un interlocutore. Nel momento in cui aprono il cuore, si rendono fragili e si riscoprono bambini: è in quell’istante che si crea un legame indissolubile. I privilegiati che entrano in quella sfera si scoprono depositari di una vita che viene loro concesso di rendere meravigliosa. 
Per i ragazzi, soprattutto in un micro mondo come quello del Convitto, aprirsi e rendersi vulnerabili significa rischiare di essere traditi e, per chi tradisce in quel contesto, l’assoluzione è esclusa. 
Io sono stata fortunata in questo, ho scoperto di avere padri e madri straordinarie. Ricordo i brevi ma delicati ‘interludi musicali’ con Nico e Raimondo, quei meravigliosi e rari pomeriggi trascorsi a studiare nella Biblioteca del Convitto, invasa dalla luce del sole pomeridiano (attorno e dentro), i miei compleanni condivisi con quell’insolita famiglia, le battute scambiate con gli Educatori (benché qualcuno di loro, dopo i miei svariati titoli di studio, si rivolga a me con un ossequioso ‘prof’, eh Angelo?). 
La vita del Convitto è quel fugace caffè con Francesco, il severo Vice-Rettore dal cuore d’oro, il pranzo con una Teresa di dieci anni fa con la quale, lungi dall’immaginarla mio capo, avevo stretto un’amicizia ricolma di ammirazione; sono le feste di Natale, e, perché no, le piacevoli conversazioni, durante la pausa, con le ‘mamme’ degli uffici. 
Quando qualcuno, nel corso degli anni, è andato in pensione, mi è parso un abbandono imperdonabile: dal simpaticissimo Paolo, al mio maestro di informatica, Salvatore, fino a Filippo, cauto dispensatore di tesori e generoso amico. Ovviamente non ci sono state soltanto giornate di sole: pochi giorni dopo la mia laurea, il buon Direttore, mi ha comunicato che non avrei potuto continuare a risiedere in Convit all’epoca ancora non era stato approvato il regolamento per la prosecuzione post lauream degli studi. Ricordo la sua voce un po’ imbarazzata, la dolcezza con cui cercava di spiegarmi la situazione dal punto di vista burocratico, e la sua totale, generosa, disponibilità nel consigliare. 
Liberando tra le lacrime la mia cameretta ero sicura che si trattasse di un addio. Chissà cosa avrei fatto, dove sarei andata. Devi sapere, caro Convitto, che, se al momento dell’ingresso, noi ragazzini ci sentiamo sperduti, alla dipartita ci rendiamo conto che Tu rappresenti i nostri punti cardinali, il nostro sistema cartesiano. 
Oggi che ho l’onore di lavorare per il Convitto, sono il prodotto di tutte quelle emozioni, di quegli anni, di quei volti. Talvolta mi sento un Mimmo al femminile, in un continua dicotomia tra lo spirito del Convittore e quello dell’Educatore. Seguire i bambini, vederli crescere, poterli consolare quando hanno più bisogno, è quanto di meglio possa offrirci la vita. Ringrazio ogni Educatore ed ogni Educatrice per il lavoro che quotidianamente svolgono nel Convitto. 
Umilmente, più da Convittrice che da Bibliotecaria, rivolgo a tutti voi e al Convitto Principe di Piemonte la mia stima e il mio più sincero affetto. 

Valentina 



PRESIDENTI ASSOCIAZIONE